Qualcuno conserva il sogno della sua vita in un cassetto: ecco cosa ho trovato svuotando il mio


martedì 30 ottobre 2007

tristezza

Bene, oggi giornata del cavolo, piena di false partenze. Probabilmente è perchè mi sono svegliata male, o forse perchè il pranzo mi s'è piantato, o perchè non sono riuscita a fare tutto quello che volevo, o perchè il mio lettore mp3, regalato da pochi mesi, giusto oggi che domani ho due ore di treno, ha deciso di rompersi. Una tragedia. E pare sia un difetto del modello, perchè in rete c'è pure un altro sfigato a cui, come me, il lettore nortek fly 512 non riconosce più la musica che, stando al pc, ha dentro. Ho mandato una mail all'assistenza tecnica.
In realtà il vero problema è un altro, ma preferisco distrarmi.
Un bacio a tutti

sabato 27 ottobre 2007

teatro festival - Parma

Ieri sera ho visto il primo spettacolo del Teatro Festival di Parma, e sto preparando un report decente per voi. Credo che, per aggiungere comicità alla cosa, posterò i report del festival di Parma alternandoli a quelli del festival di Mantova. Un paradosso temporale per voi.

6 punti

Bene ragazze e ragazzi, ieri ho ricevuto l'avviso di ricevimento di carte giudiziarie. Dato che la mia postina combina casini, solo oggi, quando già avevo ritirato la busta mefitica, mi ha infilato nella casella la lettera con esteso il mittente, tra l'altro con la data di ieri. Una cosa tipo compito a casa mangiato dal gatto. Comunque, il fatto di non sapere per 24 ore di che morte dovevo morire mi ha fatto passare una fantastica nottata ad immaginarmi gli scenari più oscuri, tipo giganteschi complotti internazionali per incriminare me povera innocente vittima del sistema. Invece, come insistentemente la flebile vocina della mia razionalità cercava di spiegarmi da ieri, si trattava di una banalissima multa. Con, però, un optional fantastico: 6 punti in meno dalla patente. Ora, letta meglio la lettera mi sono ricordata esattamente la scena. Erano i primi di settembre, poco prima delle sei di sera, uscivo da una giornata infinita dove avevo finito per pranzare con un te e biscotti a casa della mia caposettore, all'alba delle 15, mentre finivamo di stendere un progetto. Ero stanchina, stavo uscendo dal quartiere residenziale e mi guardavo attorno per orientarmi, perchè Modena la conosco a pezzi, e quella strada lì la facevo sempre da un altro verso. In pratica ho bruciato un rosso col fotofinish. A trenta all'ora, probabilmente avevo visto giallo. Ora, sia chiaro, credo sia giusto a priori darmi 150 euro di multa l'anno. So come e quanto guido. Me li merito di certo, come la maggior parte delle persone per strada. Il fatto che mi disturba sono i 6 punti. 4 si, ma 6 ha provocato negli amici a cui l'ho comunicato via sms un autentico linciaggio. Mi hanno chiesto se ho investito un vigile o guidato in stato d'ebrezza. La risposta è no. Andavo pure piano.
Comunque, se come me non avete idea di quanti -e per quanto tempo- punti avete, chiamate il 848782782. Grazie ad Alex (che ieri è arrivato a 15) l'ho saputo ed ho verificato. Ad oggi ne ho 20. Non ho capito se hanno già detratto i 6 (dopo 16 giorni però credo di si), ma di sicuro ho recuperato i 2 di quattro anni fa. Quando, agitata per l'appello dell'ultimo esame e per la neve, non vidi che i posti per i disabili erano due, non uno. E pagai pure il parcheggio per occuparlo. All'epoca mi costituii dai vigili e dissi loro che facevano bene a togliermi i punti, che me lo meritavo. L'esame, dopo tre anni di tentativi, era andato bene..

domenica 21 ottobre 2007

Quello che segue è il mio primo vero racconto. L'ho riletto e riscritto talmente tante volte che ormai non lo riconosco più. A precederlo molti altri scritti, dei quali solo uno pubblicherò, ma non ora. Fatemi sapere che ne pensate, ero piccola, ma ci tengo.

DI UN SILENZIO PER STRADA

A chi mi ha fatto scrivere


L’avevo incontrata quel giorno. Non aveva l’aria di essere lì per caso, affatto.
C’è una panchina accanto alla scala d’ingresso di casa mia. E, proprio davanti a quella panca di ferro verde, c’è la fermata del bus. Stava seduta lì, voleva darmi ad intendere d’aspettare l’autobus. Guardava una porta. L’entrata di una palazzina, dall’altra parte della strada. Le passai accanto e la salutai. Non la conoscevo, nessuno me l’aveva mai presentata. Ma ero sicura che lei lo sapesse, chi ero io. Rispose e si alzò, gli occhi erano un incanto, due buchi a precipizio sull’anima, inquieti e trasparenti. Il bus era arrivato, e la portò via con sé. Lo guardai allontanarsi, arancione in mezzo alla grigia caotica striscia del traffico, e sentivo il buio di quegli occhi soffiarmi sulle spalle. L’avevo già vista, un paio di volte l’avevo trovata così, con un libro in mano, lo sguardo incantato a quella prta. Ma era la prima volta che le parlavo. Pensandoci, non ricordai la sua voce.
Un giorno avrei conosciuta la sua storia, e l’avrei raccontata. E ne avrei trovata la forza, in quel senso di giustizia che si ha da bambini; l’avrei fatto per riparare un torto subito, non saprei dire quale.

Non c’erano segni speciali in lei. Non aveva avuto una famiglia felice, ma aveva capito presto che neppure gli altri bambini la avevano, e così s’era sentita normale. Da bambina portava stivaletti ortopedici e aveva un accento strano, gli occhi erano già quel burrone che avevo conosciuto, erano già stanchi. Ma era orgogliosa, sapeva essere davvero cattiva, sapeva farsi odiare: diceva di non volere amici e non ne aveva. Non si fidava.

Primavera, lei era di nuovo sulla panchina, il libro era cambiato. Stavolta vestiva di chiaro, sapeva di morbidezza, solo le mani restavano fredde. Aveva i capelli sciolti. La vidi salutare la mia vicina di casa, mia madre s’era rotta una gamba, e spesso avevamo visite. Mia madre ha sempre amato parlare. Entrai in casa, tolsi il cappotto e preparai il caffè. Come parlassi del tempo, le chiesi notizie di quella ragazza. Mi si aprirono le pagine di un libro di fiabe incredibili. Nessun “c’era una volta”, tantissimi “si dice”, e mia madre che interessata lasciava freddare il caffè. La donna ci aveva preso gusto, ed io uscii dalla stanza senza disturbarla. Non le credetti. O almeno non del tutto. Qualcosa di vero doveva pur esserci, intanto avevo una pista da seguire. Volevo conoscere la sua storia.

Aspettai, nell’ombra del cespuglio vicino a casa, sperando di scomparire per la vergogna. Si, perché io, e voi con me, dovremmo vergognarci. Pretesi di affondare nel buio di un’anima e di poter poi tornare alla normalità. Non lo feci. Racconto. Partii da poco: un nome, qualche diceria. Non so se l’avete mai fatto, ricostruire il passato quando ancora respira. Presi a seguirla. Abitava in un palazzo a tre piani, verde. Una volta la vidi alla finestra. Al pomeriggio, allora studiavo, la aspettavo nascosta lì sotto, poi la seguivo. Conobbi rapidamente le sue abitudini. Era un’abitudinaria.
(Vi chiederete come mi permettessi di spiarla, perché di questo si trattava. Non me lo sarei permesso, in condizioni normali. Ammetto la mia colpa).
Dopo pranzo restava in casa. Usciva verso le 16, con il sacchetto della spazzatura e la borsa blu. Poi comprava un biglietto dell’autobus. Camminava piano, in modo un po’ scoordinato, come non conoscesse il proprio corpo. Aveva smesso di portare gli stivaletti ortopedici, ma non aveva mai del tutto imparato a muoversi con una qualche armonia. Faceva sempre qualche spesa, al pomeriggio: un barattolo di detersivo, del latte, delle penne. Una volta al mese la seguivo dentro a una grande libreria del centro. Era una lettrice eclettica, ma doveva esserci una logica nel ritmo delle sue letture. Ogni volta vagava dispersa per gli scaffali, poi, dopo una mezz’oretta, si svegliava e si dirigeva sicura verso i volumi che avrebbe comprato. Iniziai a leggere come lei, compravo gli stessi libri. Ma non capii mai quale fosse quella logica. Per strade diverse, ogni tanto tornava su quella panchina. Come per caso, a fissare quel palazzo. Restava lì qualche minuto, e poi prendeva il bus. Io tornavo a casa, qualche volta le passavo di fronte per guardarla, altre volte restavo dietro la siepe.

Il palazzo di fronte era sfitto da mesi, mia madre non ricordava già più chi aveva abitato quei tre appartamenti, tutta gente di fuori. Ricordava una famiglia, degli altri non sapeva dire i nomi. C’era una coppia di sposini, gentili, lavoravano in città. E poi uno studente, un bel ragazzo le pareva, era rimasto molto poco. Io ero stata via per un anno, ricordavo solo la famiglia.

Un giorno non andai in città. Mentii a mia madre, e mi appostai di fronte al palazzo di quella ragazza. La seguii senza farmi notare, ormai non me ne vergognavo neppure. Scoprii dove lavorava, e me l’immaginai, impiegata dell’ufficio postale che parlava alla gente, strana fantasia, non riuscivo a credere che potesse dire più di due frasi di seguito. Fu quella mattina che scoprii di non essere l’unica persona a seguirla. L’avevo già visto altre volte. Era un ragazzino dai capelli castani, quasi insignificante, avrà avuto si e no sedici anni, jeans e maglione, le somigliava. Ma i suoi occhi erano spenti. Lui non m’aveva vista. La cosa mi confortò. Era il fratello; l’accusa. La seguiva da prima che io cominciassi la mia follia, lei lo sapeva. Ogni giorno, ogni attimo della sua vita, e lei lo sapeva. Capii in quel momento perché lei non incontrasse nessuno, perché nessuno la salutasse se non con parole mozzate.
L’ombra la seguiva, e l’ombra era il fratello.
In quel libro che l’amica di mia madre aveva dischiuso quel primo pomeriggio, lì era scritta la colpa. Se era vera colpa. Ma l’accusa era pesante come un mantello fradicio, infamante e malata. E vedere quel ragazzino che la seguiva con l’ossessione negli occhi mi metteva nel dubbio. Incesto: era l’accusa. Quasi un film di terz’ordine. Nelle pagine di quel libro la ragazza aveva sedotto il fratello, ma la madre li aveva scoperti, per questo i genitori non la salutavano più, per questo lei alzava appena gli occhi dal suolo. La seguii (li seguii) fino al suo palazzo, poi tornai a casa.

La vicina di casa m’aveva raccontato una storia, dicendomi affranta che lei non aveva il cuore di crederci. Ma intanto parlava, e m’aveva infilata nell’ombra. E adesso non sapevo se uscirne sarebbe servito a qualcosa. Lei l’aveva cresciuto, il suo piccolo fratellino dalla pelle pallida. La madre lavorava, e loro due erano sempre insieme. Erano cresciuti insieme, l’uno nei segreti dell’altro. E lei s’era innamorata, d’un uomo che l’aveva lasciata. Un mese dopo la madre l’aveva cacciata di casa urlando, dicendo in giro che quella figlia aveva rovinato il più piccolo. Che l’aveva sedotto. Lei se n’era andata in quell’appartamento, una famiglia distrutta. Ma c’era una nota falsa in tutto questo: qualcuno aveva mentito.

Si, lei lo sapeva chi ero io. Eravamo quasi coetanee, tre anni di differenza. Mia madre l’aveva tenuta in braccio, quando io dovevo ancora affacciarmi nei suoi progetti. Mia madre. Mia madre doveva saperne qualcosa. Ma non avevo il coraggio di chiederle nulla: l’accusa era troppo grave. Lei era qualcosa di oscuro, una colpa da nascondere, qualcosa che dovevo tenermi stretto in gola finchè potevo.. Poi avrei gridato. Avrei gridato la verità, l’avrei fatto. Più avanti, con l’aggravarsi della mia ossessione(perché di questo si trattava), le chiesi. La famiglia non era stata distrutta da quelle accuse, lo era già. Da sempre. Lo si capiva dalle mezze parole che mia madre lasciava passare sotto il mio sguardo curioso, da quelle parole che lei non aveva colto già allora. Il padre non c’era mai. La bambina lo aspettava senza parlare. Ma non parlava mai molto. Già allora, già così piccola: era già una bambina cattiva, senza amici, senza educazione. Mia madre ricordava che una volta la madre non l’aveva salutata: la piccola aveva vomitato sul letto, e non voleva spostarsi per lasciarla pulire. Era stata una punizione, quel non salutarla: aveva insultato una compagna. La bambina non mangiava, passava il tempo a disegnare donne che urlavano, donne senza vestiti, senza forme. Le colorava di verde e di giallo. Passava ore sul divano a guardare il soffitto. Non ascoltava i rimproveri di mia madre. Mia madre lasciò il lavoro, sei mesi dopo nacqui io. Poi seppi altro, da altre fonti.
La bimba avrà avuto sei anni, quando era nato il fratello. A dieci era già sotto il suo controllo: smise allora di portare le scarpe ortopediche. Lei lo accompagnava all’asilo e lo andava a prendere, le maestre le regalavano sempre qualcosa. Era sempre sola, facevano quasi pena quei due grandi occhi tristi sotto la frangia troppo lunga. Era diventata una bambina buona, ancor più silenziosa, faceva tutto quello che le veniva chiesto, aveva alcune amichette. Era pallida. La famiglia s’era trasferita per un anno, a nord, in città. Poi erano tornati. La bambina era cresciuta, non la si riconosceva. Neppure lei riconosceva la gente del posto. Dopo qualche anno era scesa la colpa.
Un giorno l’avevo vista appoggiarsi a un lampione. Piangeva. Non c’era nessun altro, in quella strada, solo noi tre: io, lei e il ragazzo. S’era voltata, aveva gridato, ma la voce era strozzata. Vattene. Il ragazzo era scappato, senza rispondere. Lei non c’era più.

Smisi di seguirla. Ricominciai a studiare, come niente fosse successo. Avevo un ragazzo allora, un’anima dolcissima: non gli raccontai nulla. Lei era sempre presente, ora era lei a seguirmi ovunque, anche nella mia stanza. Ero malata, era una crisi d’astinenza. C’erano delle sere in cui la mia mente viaggiava, sognavo di essere lei, scomparivo nell’abisso. Tutto diventava sfocato al confronto di quella sensazione. Non sopportavo più l’idea di essere toccata. Dovevo espiare. Allora studiavo: mi immergevo in una nebbia tiepida e scomparivo, mi lanciavo da altezze incredibili e sentivo funzionare il cervello con lo stesso entusiasmo con cui avrei potuto guardare un’eclissi di luna. Ma ogni tanto m’inceppavo. Mi sentivo osservata. Il mio ragazzo partì per un viaggio, senza di me. Mi stavo sgretolando, senza ragioni apparenti. Un giorno decisi di farle visita. Mi vestii con cura: un maglione blu, pantaloni grigi. Mi lavai i capelli. Davanti al campanello mi bloccai. Un rumore di passi alle mie spalle: una vecchia con uno sguardo banale, pettegolo. Suonai per soggezione: non c’era nessuno in quell’appartamento. La vecchia si pulì le ciabatte sullo zerbino, si fermò sulla soglia. La sua soglia. Suonai di nuovo, fingendomi scocciata, come se il campanello fosse rotto. Mi voltai e salutai la vecchia, andandomene.

Il mio ragazzo tornò, finsi di stare meglio. Era stato lontano: ero strana perché mi era mancato. Mi credette. Molte cose non le ho ancora chiarite. La mia follia. Niente poteva giustificarla di fronte alla storia delle mie abitudini. Ero sempre stata normale. Adesso che sono guarita lo so. Lasciai il mio ragazzo, dopo. Gli avevo mentito e l’avevo fatta franca. Solo per questo sarei potuta arrivare ad odiarlo.

Un giorno vidi il fratello di fronte alla mia finestra: capii perché mi sentivo osservata. M’aveva vista, scappando. Ed ora era lui a seguirmi. Iniziai a vestirmi in modo anonimo, non mi truccavo. Alle volte mi sedevo a leggere alla fermata del bus, a rinfrescarmi, dicevo a mia madre. Guardavo il palazzo di fronte, e il ragazzo restava nascosto, a fissarmi. Forse potevo davvero diventare lei.
Un giorno suonò alla mia porta: ero in casa. Mi disse di smetterla. Di lasciar stare lei e il fratello. Le chiesi di parlare, le dissi che volevo sapere la verità. Le chiesi di dirmi come sapeva di me. La verità, credevo ancora di poterla trovare, la fenice. La vedevo come un rospo in letargo, sporco, nascosto, brutto. Eppure concluso: si motivava da sé, al mondo non doveva ragioni. Lei aveva una camicia verde, e un paio di jeans: quel giorno era giovane. I capelli erano sciolti, morbidi e castani: mi guardò, con quegli occhi completamente tristi. E parlò. Odiava la madre, pazza, la definiva. Sua madre aveva tradito quel padre assente ed atteso, lo capii. Per questo l’odiava: il fratello era figlio del padre, ma lei non sapeva. Non poteva sapere. Era tornata ragazzina, col fratello ed i genitori, in questo posto che non ricordava. Sapeva che lei qui era stata cattiva, ma non ricordava. Il fratello era cresciuto, con lei. Lui aveva paura dei temporali, e delle urla. Lei aveva paura degli altri. Dormivano nello stesso letto, per non avere paura. Io la guardavo, si, ascoltavo, ma la curiosità era meno forte del desiderio. No, non volevo la verità. Parlava a bassa voce, una voce strana, morbida, che ogni tanto s’impennava per ricadere nell’angoscia del mare piatto. Era una voce che sapeva essere qualsiasi cosa, che poteva esserlo, lo si capiva. Ma era irresoluta, restava nell’ambiguo. I capelli erano sottili, lucidi, ondulati, la pelle, morbida, sottile. Non aveva profumi, se non un odore, leggero, di ragazzo pulito. L’amavo. Avrei voluto toccarla, avrei voluto che mi toccasse. Mi parlò di lui, di quel fantasma. S’erano guardati aspettare, di fronte a una fermata d’autobus. Pensai ai suoi occhi, li pensai nella passione, mi si sciolse il coraggio: abbassai lo sguardo. Il fratello lo odiava: lei era cambiata per qualcun altro.

Vi prego, seguitemi. So che voi, sani, volete sapere quello che fino a quel momento avevo creduto di volere anch’io. La verità. Ma vi prego, seguitemi in quelle che erano le mie fantasie. Sapevo già com’era con lui. Io lo sapevo. Saperlo mi tormentava la carne. Voglio che voi lo sappiate. Per questo racconto.
Aveva sempre saputo di non essere bella. Lui lo sentiva (so che lui lo sentiva, come lo sentivo io). Ma sapeva esserlo per qualche istante, abbastanza per incontrare il suo respiro. Le bastava aprire più lenti quegli occhi alla luce, lasciarli fondere un attimo nel sole. Lei guardava il mondo a metà, per lui. Per farlo perdere. Lui la temeva. Temeva i suoi gesti inutili e spenti: non era più giovane, non lo era mai stata, quel viso da bambina. Eppure lo era. Per questo l’amava. Si amavano così. E io lo sapevo. Voi, ora, lo sapete. Se potete capire. La ragazza cattiva continuava a non parlare alla madre. In paese nessuno sapeva. Lo studente era alto, aveva abitato qui, nel palazzo di fronte. Unica cosa che avrebbe potuto strappargli, per conservarla, quel sorriso che lo trasfigurava (quasi finto). Doveva andarsene, andarsene via, alla città, come aveva fatto lei, tanti anni prima. Si scrivevano. Il fratello aveva smesso di mangiare. I genitori non capivano. Lei, dopo un paio di settimane, smise di rispondere a quelle buste bianche. Lei studiava, sembrava destinata a grandi cose. Il fratello s’era ripreso. Si rividero. Per caso, di fronte alla fermata del bus. Non potevano stare lontani, non allora. Il fratello si chiuse in camera. Per otto giorni. La madre vide la figlia con lo studente, alla stazione. Il fratello era ancora nella stanza. Stavo piangendo io al suo posto, lei era secca, svuotata. Sembrava non sentire più pietà per se stessa. Tremai, perché doveva parlare ancora, con quella voce terribile. La madre aveva chiesto al ragazzino perché restava nella stanza. Lui aveva risposto, a parole smozzate. Era colpa della sorella. La madre credette il male possibile, per quella ragazza cattiva. E fu il sospetto. L’ombra.
Il suo studente aveva saputo. Le sue mani tanto lunghe l’avevano cercata. Ma lei era scomparsa, scacciata. Tutto s’era dissolto. Si rincontrarono. Lo lasciò, senza spiegazioni, solo guardandolo con occhi nebbiosi, deserti. Non poteva più essere nulla, se non notte e silenzio. Fuggì da lui. Poi una donna lo sposò. Il giorno del matrimonio lei andò al cimitero, a coprire le tombe dei soldati morti da troppo tempo perché qualcuno ne ricordasse il dolore.

La settimana dopo l’avevo incontrata, davanti alla fermata del bus.
Mi guardò da lontano, ma non con la rabbia e il disprezzo che sapevo di meritare. No, ero qualcosa, un oggetto, un ostacolo amorfo alla fuga dei suoi occhi verso il vuoto del ricordo. Vidi in lei l’assenza. Capii forse perché avevo potuto impazzire. No, non desideravo lei. Ero attratta da quel nulla, dovevo riempire quello sguardo, almeno col pianto. Renderla viva. Desiderai le sue lacrime, ne sentii il sapore in gola. Le sue labbra erano ruvide, secche, screpolate. Da un taglio al centro del labbro inferiore vedevo la carne, il sangue. Taceva. I suoi denti coprivano la lingua che inumidiva quel taglio, le afferrai una mano. Dovevo lasciarli in pace. Dovevo. Se ne andò.

Lo feci. Li lasciai in pace. Tornai a vestirmi come prima, a truccarmi, a studiare. Tornai alla normalità, alla luce. Il fratello smise di seguirmi. Scomparvero, come fantasmi dissolti nell’aria.

Ora, ora che tutto è finito e riesco di nuovo a vedere, forse ora ho capito. Ma non potrò mai spiegare. Ora so che davvero l’amavo, del desiderio suicida d’una pazza per il sangue. Volevo perdere me stessa. Ma lei non era riuscita a farlo, per questo non riusciva più a vivere. Era rimasta la lapide di se stessa. La follia era la sua compagna silenziosa, la sua amante, l’unica che potesse accarezzarle il pensiero. Io avevo desiderato quell’ascetismo insano, ne ero quasi impazzita.

Ora mia madre è nell’altra stanza, che parla con la vicina. Ma non l’ascolto. Ho smesso da tempo di guardare negli occhi della gente per strada.

24 maggio 1995

prossimamente. Di nuovo

terzo post della giornata, oggi sono prolifica:
non ci crederete, ma sto finalmente riordinando gli appunti del festival di Mantova. Così, a mente fredda, posso sperare di scrivere qualcosa di decente. Anche perchè, udite udite, venerdì inizia il Teatro Festival a Parma, e io ci sarò. E voglio farvi dei report sugli spettacoli che andrò a vedere. E intendo fare questa porcheria pure per tutta la stagione (affari vostri, praticamente sarò a teatro tutto l'inverno). Preparatevi.. è una minaccia.
E comunque, ne profitto per una noticina triste.
Sono in un momento strano, normalmente nei momenti bui mi aggrappo come una scimmia alla serenità degli altri, è come una rassicurazione, è il sapere che c'è sempre una soluzione. In questo periodo mettermi a confronto con la felicità altrui mi costa un incredibile sforzo. Questo stato d'animo non mi appartiene, non fa parte della mia storia. Non lo voglio. Speriamo bene, speriamo che passi.

(per quelli precisi, la maledizione del 13° giorno si è ripetuta anche questo mese: vedi qui)

perchè siamo ben disposte

Dato che ho messo la foto del compleanno, mi pare opportuno in questa sede segnalare alcune battute che a quella data risalgono.
In pratica, per non fare la gran donna che ha pronta la citazione all'uopo, stamattina, mentre lavoravo (lo so, è domenica, e sono una sfigatissima atipica), ho cercato un indirizzo sul mio taccuino. E lì ho ritrovato delle chicche che non potevo trascurare. Quindi, eccovele qua.

A noi ragazze insegnano a non credere a quello che si vede nei porno.
Nino, 28 luglio 2007, ore 23.50


Barbara: Tornano tutti indietro.
Bobi: Si, ma qui è come la marea, torna indietro la merda.
29 luglio 2007

mercoledì 17 ottobre 2007

ed eccomi qua, stavolta per intero

E quindi, dopo l'ultimo post, mi pare giusto pubblicare, anche se solo per pochi giorni, questa bellissima foto scattata dal favoloso Macs la notte del mio 31esimo compleanno.
Come sempre, la mia fotogenicità (!?!) dipende tutta da chi sta dall'altra parte dell'obiettivo.
n.b.: stavo spacchettando i regali.

mercoledì 10 ottobre 2007

and the winner is..

Dopo Sally Field (fiori d'acciaio, Forrest Gump, Bolle di sapone..), che ha trionfato per anni in questo ruolo, ecco una new entry: Sabina Guzzanti. E' lei quest'anno a ricoprire l'incarico di "attrice a cui somiglio secondo i miei amici".
La ringrazio fin d'ora per l'impegno dimostrato.

si, ho i denti storti nonostante anni di costosissime e dolorosissime cure. E allora? Avreste dovuto vederli prima..