L'argomento è diverso, quindi diverso è il post.
Da alcuni giorni, per riprendermi dal periodo depressivo e caricarmi per il gran lavoro dell'autunno, sono solita farmi lunghi discorsi d'incoraggiamento. No, non quelle sagge cose che uno dovrebbe ripetersi ogni mattina guardandosi allo specchio. Ho velleità d'attrice (tra le altre), quindi passo tutto il viaggio in macchina fino al lavoro creando lunghi monologhi, con ambientazioni realistiche ed interlocutori conosciuti, dove esalto le ragioni per cui sono inappellabilmente il cervello più geniale imballato nella personalità più carismatica mai apparsa sotto il cielo. Roba seria, con tanto di discettazioni filosofiche sulla mia capacità di ispirare le folle. Ad alta voce. Magari senza fare pausa ai semafori. Anche se c'è qualcuno affiancato. Con colonna sonora ispirante di sottofondo, sparata. Il problema non è, come potreste supporre, l'inevitabile e spropositato pompaggio di un ego già ipertrofico, bensì il fatto che, tornata nel mondo reale, sono ancora così nella parte che potrei attaccare il vaniloquio con la prima persona che mi capita a tiro, con effetti terribili sulla mia immagine (che già non sta bene). E non parlo per ipotesi, è capitato.
Studentessa liceale timida e schiva, perennemente infagottata in maglioni oversize e camicie a quadri (erano gli anni novanta), mi perdevo per ore ad immaginare selvagge storie d'amore con questo o quello, passando per sensibile esteta nel sospirare ai versi del divin poeta. Imparai allora che nulla è più eccitante di una versione di latino. Ti annoi talmente tanto che il cervello cerca una fuga.
Un giorno, persa nei miei vaneggiamenti (uno dell'ultimo anno stava portandomi via dalla finestra della classe, senza cavallo bianco ma con fiat panda rosso fuoco. Sempre per il gusto neorealista di cui sopra), finii per fissare insistentemente un mio compagno. In realtà non lo vedevo, ma lui ebbe la malaugurata idea di chiedermi se stavo bene. Interrotta nel bel mezzo, proprio come una sonnambula reagii in maniera violenta. Esclamai, tipo insulto, un "ti amo!" ad alta voce. Lui sbiancò. Io, credo, pure. O forse no, realizzai la cosa con un certo ritardo. Di fatto, abbozzò una battuta, e credo mi abbia creduto a lungo, perchè da lì in poi fece la gatta morta ad ogni occasione, forse pensando di concedermi chissà che. Io, nonostante la mia tendenza al melodramma, ignorai l'incidente, anche perchè io mica l'avevo detto a lui. L'avevo detto a quel gran figo della V A coi capelli scuri e gli occhi verdi, quello che manco mi vedeva, con le mie camicie a quadri.
Il bello della vita è che non impari mai.
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